Accedere alle chat del partner è reato, viene tutelata la privacy fra coniugi: cosa rischia effettivamente chi spia l’altro?
La Corte Suprema di Cassazione ha sancito con fermezza un principio fondamentale in materia di tutela della privacy e accesso abusivo a sistemi informatici, confermando che spiare le chat del partner, anche tramite WhatsApp, costituisce un reato grave. Questa pronuncia deriva da una vicenda giudiziaria che ha visto coinvolta la Corte d’Appello di Messina e che ora trova conferma definitiva con la sentenza della Cassazione n. 19421 del 2 aprile 2025, depositata il 23 maggio 2025.
Il caso delle chat di WhatsApp: accesso abusivo e violazione della privacy tra coniugi
La vicenda ha origine da un episodio in cui un uomo, durante una complessa fase di separazione personale, ha sottratto il dispositivo mobile della moglie e, superando le misure di sicurezza impostate (password), ha scaricato alcune conversazioni WhatsApp che la donna aveva intrattenuto con un altro uomo. Successivamente, il marito ha consegnato gli screenshot delle chat al proprio legale per utilizzarli come prova nel giudizio civile di separazione.
La moglie, venuta a conoscenza della condotta, ha presentato querela per accesso abusivo a sistema informatico, reato disciplinato dall’articolo 615-ter del codice penale. La Corte d’Appello di Messina ha condannato l’uomo a sei mesi e venti giorni di reclusione, decisione poi confermata dalla Cassazione.

La difesa del marito aveva avanzato diverse eccezioni, tra cui la presunta intempestività della querela e la mancata prova tecnica della presenza di sistemi di protezione (password) sui dispositivi. Tuttavia, la Suprema Corte ha ritenuto infondate tali argomentazioni, sottolineando che la ricostruzione fattuale fornita dalla moglie è stata credibile e che i giudici di merito hanno adottato un’adeguata interpretazione delle prove, applicando correttamente le regole della logica e della motivazione.
La sentenza della Cassazione rappresenta un passaggio giurisprudenziale di rilievo per quanto riguarda il diritto alla riservatezza tra coniugi. Gli “ermellini” hanno chiarito che non esiste una “zona franca” rispetto alla privacy neppure all’interno del matrimonio o della convivenza, ribadendo che la tutela della riservatezza è un diritto fondamentale che va garantito pienamente ai sensi dell’articolo 2 della Costituzione.
In particolare, la Corte ha evidenziato che il reato di accesso abusivo si configura non solo quando si accede a un sistema informatico senza autorizzazione, ma anche quando si supera il limite di autorizzazione concessa, ad esempio accedendo a contenuti non autorizzati da chi detiene il dispositivo. Nel caso specifico, è stata giudicata arbitraria l’intrusione nelle conversazioni WhatsApp, considerate a tutti gli effetti un sistema informatico. La Cassazione ha ribadito che applicazioni come WhatsApp, essendo software che gestiscono comunicazioni tramite reti informatiche, rientrano nella disciplina di tutela prevista dall’art. 615-ter c.p.
Diritto alla difesa nelle cause di separazione
È stata inoltre sottolineata l’importanza di difendere il “domicilio informatico”, ossia la sfera privata che il sistema informatico deve garantire, sulla base del diritto di escludere altri dall’accesso non autorizzato
La sentenza tocca anche un tema delicato e spesso controverso: i limiti del diritto alla difesa in giudizio. Sebbene sia legittimo voler tutelare i propri interessi in cause civili, come quelle di separazione, ciò non può avvenire attraverso la violazione della dignità umana e dei diritti fondamentali, come quello alla riservatezza.
Il presidente dell’Associazione Avvocati Matrimonialisti Italiani, Gian Ettore Gassani, ha commentato la decisione definendola un segnale forte, che riafferma la inviolabilità del diritto alla privacy anche nei procedimenti di separazione o divorzio. Gassani ha ricordato che da oggi non sarà più possibile utilizzare in giudizio conversazioni ottenute illegalmente, e che chi intende indagare sulla condotta del partner dovrà operare nel rispetto della legge, ad esempio tramite investigazioni private autorizzate.