Pensione a 62 anni nel 2026: quali sono i nuovi requisiti e le prospettive di riforma strutturale. Ecco tutti i dettagli.
La questione delle pensioni in Italia è da sempre un argomento caldo, oggetto di dibattito e di promesse politiche che, spesso, non si traducono in azioni concrete. Con l’avvicinarsi del 2026, si profila all’orizzonte una possibile riforma strutturale del sistema pensionistico, che potrebbe introdurre la possibilità di andare in pensione a 62 anni, ma con requisiti ben diversi rispetto a quelli attuali. Questo scenario è particolarmente rilevante in un Paese dove la data di uscita dal mondo del lavoro sembra allontanarsi sempre di più per molti cittadini.
Requisiti attuali per la pensione e cambiamenti
Attualmente, la legge italiana stabilisce che per accedere alla pensione di vecchiaia è necessario aver raggiunto i 67 anni di età, unitamente a un minimo di vent’anni di contribuzione. Esistono, è vero, formule che consentono di uscire prima dal mondo del lavoro, come la pensione anticipata ordinaria, ma le soglie di contributi richieste sono elevate: 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne. Questa situazione ha creato un clima di incertezza e preoccupazione, poiché la speranza di vita continua ad aumentare, portando con sé il timore di un ulteriore innalzamento dell’età pensionabile.
Il governo attuale, guidato da Giorgia Meloni, ha messo in cima alla lista degli obiettivi di fine legislatura la riforma del sistema pensionistico, con l’intento di superare la tanto criticata legge Fornero. La possibilità di un’uscita anticipata a 62 anni, pur avendo suscitato un certo entusiasmo, si porta dietro interrogativi e preoccupazioni legati ai nuovi requisiti che potrebbero essere introdotti. Infatti, l’idea sarebbe quella di un sistema contributivo puro, dove i lavoratori possono andare in pensione a 62 anni, ma l’importo dell’assegno pensionistico sarebbe calcolato esclusivamente sui contributi versati, senza alcun tipo di integrazione minima.

Questa proposta ha trovato una certa apertura nel Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), poiché ridurrebbe il peso delle uscite anticipate sulle finanze pubbliche. Tuttavia, per molti cittadini questa soluzione non è vista di buon occhio. In particolare, si teme che coloro che hanno avuto carriere lavorative discontinua o che hanno percepito salari bassi si ritroverebbero con pensioni insufficienti, spesso al di sotto della soglia di povertà. Il rischio è che lavoratori con storie professionali complesse, come quelli impiegati in lavori usuranti o precari, si trovino a dover affrontare una realtà economica ben lontana dalle aspettative di una pensione dignitosa.
Impatti sociali della riforma
La questione si fa ancora più complessa se si considera la diversa natura dei lavori svolti in Italia. Non tutti i lavoratori hanno la stessa fortuna: mentre i dipendenti pubblici possono godere di una certa stabilità, molti lavoratori privati, come chi opera nel settore dei servizi o in ambito industriale, vivono situazioni di precarietà e salari inferiori alla media. Questo divario mette in evidenza la necessità di un approccio più equo e personalizzato nella riforma delle pensioni.
La proposta di andare in pensione a 62 anni, pur sembrando allettante, deve essere accompagnata da un adeguato sistema di protezione sociale, che garantisca un livello minimo di sostentamento per tutti i pensionati. L’idea di un assegno calcolato solo sui contributi versati, senza alcun supporto statale, rischia di creare una nuova generazione di pensionati in difficoltà. È essenziale che il governo consideri anche il benessere sociale e la qualità della vita dei cittadini, affinché la riforma non si traduca in un ulteriore aggravio delle già precarie condizioni economiche di molti.